220° DELLA CONTRORIVOLUZIONE NAPOLITANA
i riferimenti sono essenzialmente tratti dal libro :
Vincenzo Gulì
Il ferro e il fuoco del nemico esercito francese
Ediz. Laurita, Potenza, 2012
Cade quest’anno il 220°anniversario della controrivoluzione napolitana, autentica svolta nella storia dell’umanità perché rappresenta la sconfitta più scottante della Rivoluzione partita dalla Francia, su ispirazione massonica, con il fine di sottomettere il mondo. La sua memoria è più viva nei perdenti che, purtroppo, nei vincitori in maniera che ancor oggi quel popolo fiero e indomito è reputato assai pernicioso, reo di opporsi al progressismo e al modernismo rivoluzionari ed oggetto di rappresaglie di qualsiasi tipo per annichilirlo definitivamente.
Ripercorriamo alcuni tratti delle vicende storiche di quel 1799 nel Regno di Napoli per tenerne vivo il ricordo nei tanti posteri che sono costretti ad ignorarli a causa della dittatura culturale che ci attanaglia.
Dopo il 1789 la Francia continua il suo mandato settario volto a destabilizzare l’ancient régime in cui vive l’Europa per renderla permeabile alle nefandezze del giacobinismo. Grazie all’iniziativa inglese, che teme di lasciarsi sfuggire la leadership rivoluzionaria, i paesi del vecchio continente si alleano per combattere il comune nemico. Nel 1798 si parla di II Coalizione antifrancese tra Gran Bretagna, Austria, Portogallo, Svezia, Russia, Turchia e Napoli. Oltre all’endemico doppiogiochismo inglese, non deve meravigliare la partecipazione dell’Impero zarista e di quello Ottomano recentemente combattutisi per gli annosi problemi dei territori confinanti come la Crimea. Lo spirito del giacobinismo ateo e nemico di ogni tradizione aveva giustamente atterrito gli stati che, talvolta sotto forme diverse, erano conformati al monoteismo e agli insegnamenti del passato.
Rivolgiamo l’attenzione al legame tra Napoli e San Pietroburgo, che sin dal 1777 era stato attivato (come prima apertura verso l’occidente) per volere di Caterina II e di Ferdinando IV, e che proseguiva tra il figlio succeduto alla zarina Paolo I e il sovrano borbonico.
Nel regno sebezio i rovesci militari terrestri avevano indotto l’Inghilterra, che con la sua impareggiata flotta guidava di fatto la coalizione, a convincere re Ferdinando ad abbandonare a fine ’98 il suo possedimento ultrafaro per arroccarsi nella più difendibile Sicilia. Nel gennaio 1799 gli abitanti della capitale saranno capaci di scrivere nel sangue una delle pagine più gloriose del popolo napolitano quando, legittimato dall’assenza del re quale novello sovrano, deciderà di resistere al più forte e invitto esercito dell’epoca ormai alle porte. Lo strapotere francese stroncherà con ferocia l’opposizione dei lazzari ma nulla saprà escogitare per la pronta risposta degli altri regnicoli spregiativamente definiti briganti. L’insorgenza antigiacobina, contro francesi e traditori indigeni della proclama repubblica, non si fermerà nei sei mesi dell’occupazione.
Commemoreremo le fasi più salienti ed eroiche di questa contro-rivoluzione a partire dall’8 febbraio quando il cardinale laico Fabrizio Ruffo sbarca a Catona, a nord di Reggio, provenienti dalla Sicilia con soli quattro uomini e altrettanti domestici. Questo è l’incredibile quantità del nucleo che rovescerà i giacobini dal regno di Napoli.
Dopo una sola settimana di appelli in tutto il circondario si intravede già una vera armata al comando del card. Ruffo. Sono alcune migliaia quelli che il 13 febbraio si incamminano verso Scilla dove altre migliaia sono pronte per unirsi a loro sotto la bandiera della Croce e la legittimazione di Ferdinando IV.
L’armata della Santa Fede prende la strada per Monteleone (oggi Vivo Valentia), distretto della Calabria Ultra e munito caposaldo repubblicano perché sede delle Tesoreria reale di tutte le Calabrie. Ma i traditori sono pieni soltanto di avidità e totalmente privi di coraggio. A fine febbraio fuggono tutti verso Catanzaro in modo che il 1° marzo Ruffo può trionfalmente entrare in città nel tripudio della popolazione.
Pur liberata la capitale della Calabria Ultra II Catanzaro, rimane in mano ai rivoluzionari Crotone (allora Cotrone, capoluogo di distretto) con il rinforzo di truppe francesi da poco sbarcate. L’Armata Reale punta sulla città di Pitagora con l’appoggio di tutti gli uomini validi del circondario. Dopo un vano tentativo di intimare la resa, il 18 marzo c’è l’assalto alle fortificazioni repubblicane, già scornate nella notte da un presuntuoso e disastroso tentativo di sortita. I duri combattimenti durano un paio di giorni e sfociano nel sacco della città non riuscendo Ruffo a trattenere la rabbia degli attaccanti, cresciuta a dismisura per l’esagerata resistenza dei ribelli e degli stranieri presenti.
Una delucidazione è necessaria adesso che le vittorie sanfediste si susseguiranno. Don Domenico Sacchinelli , tra i cinque sbarcati a Scilla e segretario della spedizione, nelle sua fedele cronaca dichiara inequivocabilmente che la stampa giacobina, arma fondamentale della setta, inventerà di sana pianta violenze e saccheggi dell’armata reale nelle città redente. Ciò ovviamente per illudere i francesizzati e in pieno contrasto con la realtà storica e la dirittura morale di Ruffo e compagni.
All’inizio di maggio i Sanfedisti sono diretti a Matera e in tutto il territorio finitimo è un incessante fermento liberatorio con fuga dei traditori e distruzione dei loro alberi della libertà, specialmente nelle Puglie anche per la comparsa nell’Adriatico di una flotta turco-russa accorsa in aiuto. Il plenipotenziario Antonio Micheroux aveva infatti stretto un patto con Russia e Turchia per l’invio di truppe in supporto dell’avanzata di Ruffo. Micheroux è latore di una lettera di Re Ferdinando che lo incarica di riportare l’ordine nelle amministrazioni locali con l’indulgenza regia. Ciò facilita e accelera il ritorno alla legalità delle città appulo-lucane.
Per la sua posizione naturalmente fortificata la città di Altamura era stata scelta dai giacobini quale punto di resistenza per l’avanzata sanfedista. I più facinorosi avevano preso il controllo da tempo terrorizzando gli abitanti e corrompendo in ogni maniera anche il clero locale fino a intrattenere laidi contatti con le suore compiacenti del locale convento. Addirittura una sorta di processione era stata inscenata ipocritamente all’approssimarsi di Ruffo seguita da una spietata caccia ai lealisti. Molti di questi malcapitati erano stati condannati al famigerato “matrimonio giacobino” con cui si ammazzavano dei poveretti, si legavano ai cadaveri altri vivi, ancora più sventurati, per seppellirli assieme in fossa comune. Tutto ciò era stato ampiamente sperimentato in Vandea dai francesi invasori. Quando l’8 l’Armata Cristiana e Reale è schierata avanti alle mura Ruffo ordina di non circondare completamente la città per dar modo al nemico di fuggire per minimizzare al massimo i danni. Gradualmente il piano ha successo perché sia quasi tutti i ribelli sia buona parte dell’atterrita popolazione si mettono in salvo sui vicini monti. In tal modo il 10 gli avamposti regi entrano in un paese vuoto e tranquillo ma si scatena la sacrosanta ira scoprendo le sepolture in cui sono ancora agonizzanti i borbonici, compresi i messi del cardinale mandati giorni addietro per intimare la resa. Parte la caccia ai pochi giacobini rimasti, soprattutto i residenti aristocratici e le famose monache perdute ancora gozzoviglianti con i loro amanti. L’intervento diretto di Ruffo e il rientro degli altamurani riportano a fatica la calma. Gli ufficiali sanfedisti addirittura risarciscono i danni agli abitanti più colpiti dal furore della battaglia.
Dopo una lunga presenza in Altamura per normalizzare tutti i compromessi rapporti, Ruffo, avvisato il Re a Palermo, riceve notizie sui rovesci i pianura padana dei francesi di fronte agli austro-russi con alleggerimento del presidio a Napoli per portare rinforzi rivoluzionari a nord. Decide conseguentemente di muoversi verso il Principato Ultra per poi puntare sulla capitale. Ciò in concomitanza con lo sbarco di alleati russo-turchi nelle Puglie a cui si è aggregato il messo regio Micheroux con soldati siciliani. Gli alleati risalgono nella prima parte di maggio dalla terra di Bari alla Capitanata liberando i paesi che inneggiano subito ai suoi valori: Viva la religione, Viva il Re!
Nella prima metà del mese, come detto precedentemente, il gen. Francese Mac Donald deve spostare l’armata a nord per soccorrere i suoi commilitoni sconfitti in Lombardia. Dopo aver lasciato presidi nella repubblica partenopea, divide il suo esercito in tre forti colonne. La prima centrale che deve risalire verso l’Aquila; la seconda mediana verso Sora; la terza litoranea verso il confine di Terracina. Il percorso delle orde rivoluzionarie è segnato da violenze di ogni tipo e spinge i fieri regnicoli non solo alla difesa ma all’attacco. A Fondi la terza colonna deve abbandonare armi e bagagli per fuggire a piedi. La seconda colonna sparge sangue tra Isola e S. Germano, saccheggiando l’abbazia di Montecassino e si allontana solo dopo aver subito pesanti perdite in uomini e mezzi. La prima colonna viene impavidamente attesa nelle gole di Antrodoco dove gli abitanti dell’Abruzzo Ultra tendono un agguato che costringe i presuntuosi neo galli a sbarazzarsi dell’equipaggiamento e, soprattutto, delle preziose prede fatte durante l’occupazione del regno, in maniera da poter scappare alleggeriti verso nord senza mai voltarsi indietro per il terrore…
A fine maggio l’esercito sanfedista attraversa paesi festanti per la liberazione da Gravina a Spinazzola e poi, in Basilicata, da Venosa a Melfi. Il 29, nel capoluogo lucano di distretto, Ruffo riceve emissari della Sacra Porta che il sultano Selim III ha destinato per aiutare la sua impresa. Il cardinale reputa più opportuno utilizzare il forte contingente turco-albanese, al comando del gen. Acmet, nell’assalto finale di Napoli. Pertanto li invita a raggiungere via mare la capitale ed attenderlo lì.
Il 31 maggio Ruffo parte da Melfi per raggiungere Ascoli, capocircondario del distretto di Bovino, dove attendono le truppe russe. Vari contingenti sono inviati a nord delle Puglie e negli Abruzzi per spazzare via i rivoluzionari. Il cap. Baillie con il messo regio Micheroux presentano la forza zarista attestata poco distante. Si concertano le azioni per bonificare i dintorni a cominciare da Bovino. Si decide pure di indire una sorta di embargo verso Napoli, specialmente di derrate alimentarie, in maniera che il governo illegittimo si trovi in difficoltà al momento dell’attacco finale che si sta progettando. In tal modo i paesi attorno alla capitale sono informati di bloccare in ogni modo i rifornimenti e lo eseguono puntualmente ed efficacemente.
Ariano, capoluogo di distretto del principato ulteriore, fa quasi da spartiacque tra versante adriatico e versante tirrenico del regno napolitano e viene raggiunto tra il 3 e 4 giugno dall’Armata cristiana e Reale. Essa ormai conta su decine di migliaia di uomini che da diverse strade si sono ricongiunte nella città irpina, precedute dal suono di una banda popolare formata in buona parte dai zampognari lucani che solevano andare nella capitale per le novene di fine anno. Il 5 da Palermo arriva un gradito dono della regina Maria Carolina, la Bandiera della Santa Fede ricamata dalle principesse reali come auspicio della prossima vittoria sulla rivoluzione atea. Ad Ariano sono completati i piani strategici per l’attacco finale a Napoli. Le menzogne, che sono la base della comunicazione giacobina, non facevano giustamente trapelare a Napoli e dintorni la marcia trionfale di Ruffo . Addirittura si scriveva sui giornali che dei galeotti siciliani erano stati vestiti da soldati russi per intimidire la repubblica! In tal modo parecchi emissari da quelle zone ancora occupate, per brama di verità, riescono a contattare i Sanfedisti ottenendo prove, come le monete russe esibite, della potenza che si stava per scatenare contro i rivoluzionari. Ciò provoca varie insorgenze da Pomigliano a Casoria, da Cava a S. Giorgio a Cremano con furiosi combattimenti con i Francesi e gli ascari repubblicani.
Il governo repubblicano di Napoli è costretto finalmente a prendere atto del pericolo incombente che costituiva l’armata di Ruffo. Poiché i volontari del suo esercito erano ben pochi per la capitale è indetta una leva obbligatoria che con conduce molti sprovveduti a ingrossare tre colonne di armati da mandare contro i Sanfedisti. La prima è affidata al generale traditore Wirz, con gli uomini più affidabili, schierata a difesa della città sebezia. La seconda del generale traditore Federici è spedita via Terra di Lavoro verso il Principato Ultra per affrontare apertamente il loro nemico. L’insorgenza generale a nord di Napoli porta allo scompiglio totale con fuga della maggioranza dei coatti e disperdimento del resto in rotta dopo aver abbandonato l’artiglieria. La terza del generale traditore Schipani di Catanzaro aveva il compito di avanzare lungo la strada delle Calabrie per tagliare la possibile avanzata di Ruffo. Essa era formata da i calabresi forzatamente indotti ad obbedire ai baroni delle terre in cui vivevano con le famiglie da generazioni. Schipani, saputo della triste fine della truppa di Federici, si ferma impaurito tra le due Torri, prima della reggia di Portici, in attesa degli eventi.
L’11 giugno Ruffo entra nella città di Nola dove ritrova il contingente turco guidato dal cap. Acmet conosciuto a Melfi. Esso aveva raggiunto, secondo i patti, via mare la costa vesuviana e ora si schierava con gli altri alleati per la battaglia finale. La discussione strategica per liberare Napoli presuppone prioritariamente di mettere al sicuro le spalle prima di avanzare verso la capitale con una manovra dall’interno verso il litorale porticese. I vari forti marittimi e l’esercito di Schipani tra Torre Annunziata e del Greco andavano assolutamente trattati a dovere. Per questo motivo truppe regie venute da Palermo assediano il forte di Castellammare e varie altre unità si devono ad esse riunire per assalire Schipani sbarrandogli la strada per Napoli. Si parlava anche dell’aiuto attesa dalla flotta inglese che probabilmente avrebbe condotto con sé il principe Francesco.
All’alba del 13 l’Armata Cristiana e Reale, con gli alleati russo-turchi, si muove da Nola verso le falde del Vesuvio. La notizia arriva al direttorio repubblicano che fa scattare l’allarme rosso. L’attacco è giustamente previsto lungo la litoranea anche per la presenza in rada di una flotta anglo-siciliana. Il forte di Castellammare, quello del Granatello a Portici e quello prossimo alla capitale di Vigliena davano una certa fondatezza ai giacobini che potevano contare anche sulla flottiglia di barche cannoniere di Caracciolo lungo la costa.
Nei pressi di Somma il cardinale riceve la notizia che non è avvenuto il blocco dell’armata di Schipani perché solo le esigue forze di Nicola Gualtieri, detto Panedigrano (ex detenuto e ormai leale e grande condottiero) avevano lottato, fugandole, con le sue avanguardie. Costui si fa trascinare dai porticesi, col capo massa Francesco Almeida, che gli fanno liberare la reggia e poi il caposaldo del Granatello con l’ausilio delle navi inglesi, dopo aver ricevuto rinforzi di cacciatori calabresi. I pusillanimi giacobini fuggono verso Napoli, inseguiti dai sanfedisti fino a S. Giovanni a Teduccio.
A mezzogiorno la testa dell’armata imbocca il comune di S. Jorio (S. Giorgio a Cremano) mentre ancora la sua coda stava per lasciare Nola! Un esercito veramente popolare diventato enorme per lo spirito religioso e patriottico che connotava tutti i regnicoli, di ogni ceto ed età. Da S. Jorio i comandanti scrutano col cannocchiale le difese alle porte di Napoli. Mentre la truppa consuma il rancio gli insorgenti locali comandati da Giorgio Punzo parlano con il colonnello calabrese Costantino de Filippi dei tanti civili che stanno combattendo a S. Giovanni contro i giacobini in fuga. Senza nemmeno avvertire Ruffo, de Filippi li segue con le sue compagnie di cacciatori verso il forte di Vigliena che costituisce l’ultimo ostacolo prima di Napoli.
Intanto che Ruffo si organizzava per fermare l’alquanto velleitario e non concordato assalto a Vigliena e per cui chiedeva supporto a Baillie, i fatti precipitavano a S. Giovanni. Il furore e il coraggio dei cacciatori calabresi guidati dal col. Francesco Rapini, da Reggio, li fa avvicinare al forte che vomitava bombe in continuazione, spalleggiato dalla flottiglia di Caracciolo che sparava dal mare, incutendo sconcerto agli avamposti . Con pesanti perdite ma infinito valore i sanfedisti assaltano con un blitz le basse mura del fortino e vi penetrano seminando terrore tra i sorpresi difensori. E’ un cruento combattimento all’arma bianca reso ancora più tragico dall’essere la maggioranza dei giacobini pure di origine calabrese, coartati dai baroni traditori e comandati dallo spretato Antonio Toscano. I pochi superstiti fanno esplodere il deposito di munizioni proprio mentre diverse compagnie di regi sono entrate. E’ una strage suppletiva, grave per le perdite maggiori (compreso Rapini) degli attaccanti ma più deleteria per lo spirito di resistenza dei difensori. Infatti Caracciolo si dilegua e il morale di quelli della fortificazione al Ponte della Maddalena scende pericolosamente.
Il giorno della festa di S. Antonio sta ormai scemando e le voci sull’esaudimento della speranza di vittoria dei sanfedisti improvvisamente si ravvivano. Il tremendo boato da Vigliena rompe gli indugi di Ruffo che, lasciata una guarnigione a protezione di Portici, a gran carriera ordina l’attacco a Napoli alle prime ombre della sera.
L’estremo baluardo al Ponte della Maddalena sul Sebeto era l’armata di Wirtz, ricchissima di ben posizionata artiglieria. Al terribile fuoco dalla terra si accoppia quello insidioso dal mare del traditore Caracciolo. E’ l’ultima ora di quel fatidico 13 giugno e Ruffo pretende che l’onore ai caduti sia lo sprone per gli altri, invitando i soldati dello zar a vigilare sull’ordine. Gli assalti al Ponte si susseguono con ingenti morti da ambo le parti. Lo sfondamento avviene grazie ai russi che alla baionetta investono la fortificazione dopo l’opportuno cannoneggiamento. Lo stesso Wirtz muore nella vana difesa di un’utopica repubblica. Ormai i giacobini sono in rotta disordinata e si accalcano per i sentieri che portano nella capitale. Con precisione e cinismo l’artiglieria russa li inquadra ne fa scempio.
Sta per scadere la mezzanotte e ormai Napoli è caduta perché senza più valida tutela! S. Antonio ha fatto il miracolo voluto dai suoi fedeli! La Controrivoluzione, spontanea e popolare, ha battuto la Rivoluzione, mercenaria e settaria!
La calma che finalmente avvolge Napoli tra il 13 e il 14 giugno era colma di preoccupazioni per Ruffo che si chiedeva dove fosse finito l’esercito repubblicano e se l’indomani l’avesse contrastato nel suo varcare la ancora visibile cinta muraria della città sebezia. Si chiedeva altresì se l’immensa popolazione della capitale avesse ingrossato le fila dei simpatizzanti giacobini con conseguenti seri problemi a riconquistarla. Sono ancora i bravi calabresi a dargli la tranquillità. Con un altro scatto di incoscienza e di audacia autonomamente diversi cavalieri entrano di gran galoppo per le strade deserte e semi buie. Al rumore squillante degli zoccoli delle cavalcature sul selciato segue un grido preciso: CHI VIVA? Nelle situazioni belliche incerte si sondava la fede politica di chi si parava di fronte. La sua pronta replica era un’inequivocabile dichiarazione di ostilità o meno. Ebbene le urla nel cuore della notte attraversano le pareti domestiche recando il sospirato messaggio ai napoletani. Da centinaia di finestre e balconi gli arditi calabresi vedono la fiammella di una candela, talvolta la candida bandiera gigliata e odono una forte e entusiastica risposta : VIVA ‘O RRE! In tal modo questi volontari araldi della vittoria possono ritornare gonfi di gioia dal cardinale assicurandogli la fedeltà a re Ferdinando del popolo tutto. I pochi giacobini non tengono appoggi ed hanno ormai le ore contate…
In quella notte magica sanfedisti e turchi prendono di sorpresa il castello del Carmine facendo scempio della guarnigione abbandonata a sé stessa. Viene altresì fermata una barca che recava l’estremo piano di salvezza dei repubblicani. Esso concerneva nel sollecitare all’alba l’attacco dell’esercito di Schipani alla reggia di Portici proprio mentre i giacobini di Napoli e le residue truppe francesi, rinforzate da quelle ancora a Capua, avrebbero assalito i “briganti” al Sebeto. Insieme Ruffo sarebbe stato vinto! Il Cardinale non se ne adombra troppo ma invita alla massima all’erta i sanfedisti nelle zone nominate, in particolare Fra Diavolo tra Aversa e Capua.
Quando sorge il sole segnali inequivocabili da Santelmo comunicano l’inizio della realizzazione dell’ultima resistenza giacobina. Appena Ruffo viene a conoscenza di Schipani che punta su Resina, spedisce al fratello Francesco comandante a Portici delle truppe scelte, che aveva in riserva rispetto allo schieramento nella capitale, al comando del brigadiere de Sectis, che annoveravano pure una compagnia russa con artiglieria.
L’armata di Schipani (tra cui il giovanissimo ma già traditore matricolato Guglielmo Pepe) contava circa duemila uomini: un battaglione di “black bloc” Dalmati, un gruppo di calabresi suoi “vassalli” (detti legionari calabri), il resto riunito per la leva obbligatoria imposta a Napoli che aveva incluso soldati esteri ingaggiati dal re, rimasti intrappolati nella capitale.
L’armata della Santa Fede è pari di numero solo perché irrobustita dalle masse degli abitanti della zona che volevano finalmente menar le mani.
Sullo scontro tra di esse vi sono due versioni contrastanti. Quella logica, notoria e confermata dal quadro generale degli avvenimenti di parte sanfedista; quella mendace, fantasiosa e propagandistica senza alcun collegamento con la realtà generale dei giacobini (soprattutto postumi…).
Schipani avanza da Torre a Resina sulla via delle Calabrie e, in vista dell’abitato presso la Villa Favorita, attacca le sentinelle del cardinale che si ritirano prudentemente abbandonando però dei pezzi di artiglieria; poi cerca di aggirare il paese temendo la reazione locale. Ma sui poggi lavici circostanti sono già appostati i sanfedisti, guidati dal gen. de Cesari, che fanno stragi del nemico allo scoperto. I cannoni di prima sono celermente girati contro gli attaccanti e solo un’ardita carica alla baionetta dei russi li fa tacere. La vista dei bravi soldati dello zar che erano stati oggetto delle calunnie giacobine che li volevano spacciare per galeotti travestiti fa trasecolare i seguaci della repubblica. I Dalmati si defilano e i napolitani ed esteri quasi tutti gettano le armi gridando “Viva il Re”. Solo Schipani con pochi irriducibili, tra cui Pepe, riesce a scampare, solo provvisoriamente, tra le campagne. Altri suoi “vassalli” sono intercettati dagli insorgenti locali e massacrati.
Le deliranti cronache giacobine narrano invece sfondamento a Resina e di asperrimi combattimenti alla reggia e nel centro di Portici con strenua resistenza avanti la chiesa di S. Ciro delle truppe russe ai reiterati, ma vani. assalti di Schipani alla fine costretto a ritirarsi. In effetti se n’era andato ben prima incastrato alla Favorita! Si parla inoltre di una giornata di lotta quando tutto si era esaurito in un paio d’ore.
L’aggancio “documentale” di parte repubblicana si fonda sul Dalmati che, come visto sbandati, errano sino a Portici dove si arrendono alla prima pattuglia nemica; si basa ancora sulla memoria della tragica fine dei fuggiaschi traditori che sono rastrellati e ammazzati dagli uomini di Almeida.
Nessuna vera battaglia quindi a Portici. Tutto era già precipitato definitivamente per i rivoluzionari alla porte della città degli scavi di Ercolano.
Quando Ruffo entra in Napoli il 14 c’è già una città in mano ai famosi lazzari che stanno dando la caccia ai giacobini dopo sei mesi di oppressione feroce. La baraonda era quasi indomabile. I napoletani riconoscevano i giacobini anche per la pettinatura di moda “alla Bruto” che aborriva, secondo il dettame parigino, capelli lunghi e codini. Parecchie capigliature erano così tirate per strada per scoprire un eventuale toupet ingannatore. Un’altra non lieve preoccupazione per il cardinale gli arriva da Palermo per una lettera del Re che gli preannuncia una flotta ispano-francese nel Mediterraneo capace di minacciare seriamente le sue imprese. A tal uopo il principe Francesco è stato trattenuto in Sicilia e Nelson con la squadra inglese sta veleggiando per fronteggiarla.
I repubblicani stanno rinserrati soprattutto nei tre castelli di Santelmo, Ovo e Nuovo mentre i sanfedisti occupano tutta la capitale circondandoli. Avendo avuto sentore della possibilità di aiuto dalla flotta francese i repubblicani si ostinano a ricusare ogni profferta di resa onorevole e sparano continuamente dalle loro roccaforti . Ciò esaspera ancor più la gente, accorsa anche dai paesi vicini, che il 15 insiste con persecuzione antigiacobina nei luoghi meno sorvegliati dai Sanfedisti che tentano invano di mantenere l’ordine. Il 16 sono puntati cannoni pesanti contro i baluardi repubblicani a cui è dato un ultimatum: resa o cannoneggiamento con apertura di brecce da cui sarebbe entrato il popolo inarrestabile e assetato di vendetta. Con le trattative aperte e prolungate ad arte dai giacobini che guardavano sempre l’orizzonte sul mare per i soccorsi, di notte c’è una sortita di giacobini napolitani e francesi da Santelmo con danni agli uomini e alle batterie rivolto contro Castel dell’Ovo. L’indomani si riaccende il duello tra assediati e assedianti con il popolino ancor più scatenato. Verso mezzogiorno le prime difese di Castelnuovo sono infrante e Ruffo dà ordine di far apparire le scale per l’assalto finale. Il terrore di trovarsi a faccia a faccia con sanfedisti e lazzari è più forte dell’utopica attesa dei rinforzi. Finalmente sul castello sventola la bandiera della resa.
E’ Micheroux a trattare direttamente col gen. Mejean che prende ancora tempo ma finalmente il 21 si firma l’accordo che prevedeva la partenza via mare di tutti i repubblicani che lo volevano. Quindi sia i francesi che i traditori locali.
Il cap. britannico Foothe salpa subito per riportare le notizie della capitolazione in Sicilia. Ma, poche miglia dopo essere partito incrocia l’ammiraglia di Horatio Nelson che rimane assai contrariato di quanto fatto in combattimento e stipulato in sua assenza. Il 24 appare la flotta anglo-lusitana all’orizzonte e qualche impenitente giacobino ancora s’illude che sia quella promessa dalla Francia in soccorso della repubblica. Serrate riunioni si susseguono tra Nelson, Ruffo e gli altri comandanti alleati ma la volontà dell’ammiraglio è ferma nel voler trattenere i regnicoli traditori nonostante l’indulgenza dell’atto di resa. Solo ai soldati francesi gli inglesi vogliono concedere di lasciare la città via mare.
Ruffo per onorare quanto pattuito propone ai felloni prigionieri di imitare alcuni che già si erano persuasi ad allontanarsi via terra andando in esilio. Ma i caporioni ricusano sdegnosamente la proposta ritenendo infamante trattare col cardinale e si consegnano agli inglesi.
La protervia continuata di Nelson nel biasimare quanto operato dai Sanfedisti irrita alla fine Ruffo che gli comunica di essere pronto a riconsegnare i castelli al nemico ritirandosi fuori città in modo che gli Inglesi possano poi espugnarli con nuove regole conclusive. Ciò spiazza l’ammiraglio che addiviene a miti consigli.
Tutti insieme devono infine occuparsi del forte di Santelmo che non intende aderire alla resa. Si inviano anche truppe verso Capua e Gaeta ancora in mano a franco-repubblicani. Il 29, secondo il patto del 21, gli assediati raggiungono la nave con direzione Tolone ma, inaspettatamente, Nelson fa individuare e arrestare i giacobini locali già imbarcati. Un’altra notizia turba il cardinale perché gli viene recapitato il comunicato inglese su cattura, processo ed esecuzione di Francesco Caracciolo a bordo della nave di Nelson. Dai verbali scaturisce la puerile difesa di costui che ammette di aver sparato sui sanfedisti con le sue barche cannoniere avendoli scambiati per insorgenti locali. Bella mentalità contro il popolo! Tipica dei giacobini come lui, nonostante l’ammiraglio traditore si fosse dichiarato obbligato con la forza a servire la repubblica. Avrebbe avuto tante possibilità di resipiscenza… Gli viene inflitta la condanna ignominiosa dell’impiccagione con successiva dispersione in mare. Per ragioni anche di invidie personali Nelson aveva fatto ricercare nelle campagne vesuviane in cui era scappato il fellone per far giustizia non certo sommaria ma immediata.
La più poderosa fortezza napoletana, Castel Santelmo, all’inizio di luglio non dava ancora segni di resa. Il gen. Mejean, con le residue truppe francesi e i felloni locali, mostrava una boria assolutamente infondata ritenendo la sua posizione imprendibile. Costui spregiava la capitolazione da lui stesso coordinata e si faceva forte anche di parlamentari sanfedisti tenuti in ostaggio, tra cui il fratello di Micheroux. Gli alleati non indugiano e stringono l’assedio con regie truppe napolitane, russe e contingenti sbarcati dalle navi inglesi e portoghesi. Comincia un duello di artiglieria che consente l’avanzata costante di quelle assedianti. Mejean manda un delirante dispaccio a Ruffo chiedendo per il rilascio della roccaforte un milione di franchi, con la minaccia di bombardare le abitazioni civili in caso di rifiuto. Grande la risposta del cardinale che ricorda le norme belliche internazionali che vietano agli accerchiati di sparare sui civili che non offendono. Un’eventuale crimine di tal fatta autorizzerebbe gli attaccanti a passare per le armi tutti i rei difensori.
Edotto sugli sviluppi della liberazione della capitale finalmente Re Ferdinando IV parte da Palermo e alla sera del 9 è all’altezza di Procida. La notizia corre nella città in fermento e fa tralasciare d’incanto ogni altra occupazione (come la caccia al giacobino) al popolo tutto che freme per rivedere il suo sovrano. L’indomani la nave reale entra in rada ma inaspettatamente si ancora tra capo Posillipo e Castel dell’Ovo. Partono salve di benvenuto da tutti i capisaldi militari sanfedisti e alleati. La frenesia popolare non accetta indugi e centinaia di barche cominciano uno strano e ininterrotto pellegrinaggio verso l’imbarcazione con il re. Con bandiere, canti e ovazioni cercano di scorgere anche per un istante il loro amatissimo “Tata”, ossia padre. Ferdinando talvolta si fa vedere ma di sbarcare nessun segnale…
Il 10 le salve in onore del re erano state seguite da colpi veri e micidiali contro i pervicaci occupanti di Santelmo. Profonde falle si aprono nel forte per la vicinanza indisturbata dei cannoni assedianti; i russi riescono anche a centrare e spezzare l’odiato tricolore francese. Ormai la resistenza è disperata e Mejean finalmente si decide a salvare la pelle dei francesi assai a rischio se i lazzari fossero entrati a seguito dei sanfedisti. Nel contempo Ruffo dà al re il resoconto degli avvenimenti specialmente riguardo al patto scritto di resa sottoscritto il 21 giugno con i repubblicani che lasciava loro la facoltà di partire con i francesi. Ferdinando propone la sua propensione ad accogliere le richieste del cardinale a Nelson. Costui si dichiara però intransigente al massimo. Gli ribatte che un re non tratta con sudditi ribelli, ribadendo la sua ferma posizione già espressa a Ruffo. Ciò è un’altra di quelle smentite clamorose della storia che è possibile realizzare con minimo sforzo, un pizzico di intelligenza e un barlume di buona fede. I prezzolati e mendaci storiografi filo giacobini delirano (indicando documenti mai rinvenuti e riportando dialoghi nel Palazzo dei Normanni tecnicamente inaudibili) nel descrivere l’intervento diretto di Maria Carolina e Ferdinando da Palermo per ribaltare l’accordo del cardinale e obbligare Nelson a renderlo esecutivo. Tutto invece era accaduto dopo l’arrivo della flotta anglo-portoghese alla completa insaputa dei reali e in mancanza dei giorni necessari per avvertirli e ricevere le temerarie accuse pubblicate. Quindi il rigetto del patto di Ruffo, che procurerà i danni successivi ai traditori giacobini, è interamente da ascrivere all’ammiraglio britannico, comandante militare supremo dell’alleanza antifrancese. L’11 è firmato l’ultimo atto della guarnigione di Santelmo con i Francesi che il mattino dopo s’imbarcano per la loro patria e consegnano ai vincitori tutti gli altri, compresi dei napolitani che da tempo erano stati inquadrati nell’esercito gallico.
Il 16 incominciano a sfilare nella capitale le truppe dell’alleanza della santa Fede con un duplice fine: dare soddisfazione ai combattenti vincitori e al popolo entusiasta e scatenato, ebbro di gioia nell’esprimere tutta la sua sovrana e legittima potenza. Sfilano i bravi calabresi che hanno seguito Ruffo sin dal principio con Panedigrano che rappresenta la possibilità di rinascere nel bene; sfilano i pugliesi e quelli dei Principati accodatisi all’armata reale; sfilano i leborini con in testa fra Diavolo; sfilano i vesuviani con Francesco Almeida e Giorgio Punzo; sfilano le truppe regie sbarcate dalla Sicilia; sfilano i militari che sono il nucleo dell’esercito di Ruffo come quelli di Micheroux, quelli di Baillie, quelli di Acmet e i marinai anglo-portoghesi della flotta. Le bandiere sanfedisti, borboniche, russe, inglesi, turche e portoghesi sventolano nel tripudio della folla. L’attenzione verso quest’ultima era basilare perché non si erano interrotte dal 13 giugno le intemperanze dei lazzari verso i loro aguzzini “infrancesati” ponendo seri problemi per il ritorno alla normalità. Si studiavano le strategie più idonee a disciplinare gradualmente le masse come placare la loro sete di giustizia con la punizione esemplare e legale dei traditori. Per tale motivo sin da prima dell’entrata in Napoli erano iniziati i processi contro i ribelli più famigerati poi giustiziati nelle isole liberate come Procida. Il 13 luglio le prime condanne erano state già eseguite in città a piazza Mercato, come quelle riguardanti un frate straniero “democratizzato” Giancarlo Belloni e un avvocato lucano giacobino Niccolò Carlomagno. Un altro obiettivo era espugnare al più presto le fortezze ancora in mano a francesi di Capua e Gaeta. Gli alleati esteri si spostano quindi a nord per chiudere definitivamente i conti con la rivoluzione.
Re Ferdinando, pur impedito a sbarcare dagli interessati scrupoli inglesi , legiferava sulla nave che lo ospitava. Nomina in tal modo una Giunta di Stato per i delitti di lesa maestà, formata da eminenti magistrati il più famoso dei quali era il girgentino Vincenzo Speciale, leale e inflessibile. Questo apposito tribunale comincia, come già accennato, ad operare nei posti più tranquilli come le isola liberate sin dalla primavera. Parecchie condanne sono comminate nella seconda metà del mese tra cui spicca quella ad Ischia del fellone Giuseppe Schipani che aveva fallito l’estremo tentativo di fermare i Sanfedisti. Le pene capitali andavano eseguite con l’impiccagione, tranne per gli aristocratici in cui applicava lo strumento ritenuto meno vile della decapitazione. Per i traditori più spergiuri si negava anche questo privilegio, com’era stato per Caracciolo, duca di Brienza, ma per Schipani, dei duchi di Diano, c’è la decollazione.
Negli ultimi giorni di luglio Capua è circondata da truppe regie, alleate e dalle masse popolari. Lì sono asserragliati circa tremila francesi e quasi altrettanti felloni indigeni detti “patriotti”. Da rilevare che tra i citati “francesi” c’erano contingenti polacchi e altri addirittura provenienti dalla repubblica cisalpina della val padana. Quindi lombardi, veneti, emiliani già predoni a sud della penisola nel 1799! Si apre un furioso duello di artiglieria con gli assediati che rispondono colpo su colpo fino a quando, il giorno 28, sono seriamente danneggiati nel settore S. Caterina e decidono di arrendersi. Tutti sono arrestati e condotti a Napoli da dove i transalpini e loro associati s’imbarcheranno per Tolone mentre i traditori attenderanno in carcere il grande processo che sta per partire.
Il leggendario Michele Pezza, detto fra Diavolo, a capo della masse popolari , da tempo aveva sotto tiro la rocca di Gaeta e i boriosi francesi. In vari episodi c’erano state scaramucce e veri e propri combattimenti con pesanti perdite degli invasori. Un poco alla volta la fortezza era stata completamente isolata per via di terra e a fine luglio anche per via di mare dalla flotta siculo-inglese. Quindi, dopo le vicende a Napoli e a Capua, l’esercito sanfedista si stava dirigendo verso Gaeta per troncare l’ultimo anello dell’oppressione giacobina. Ma la bravura di Fra Diavolo lo precede costringendo i galli tricolorati alla capitolazione il 1° agosto 1799. Per tali servigi da sottufficiale Pezza sarà nominato colonnello del regio esercito. La patria napolitana finalmente è totalmente liberata!
A bordo del vascello Fulminante re Ferdinando verso la fine di luglio aveva riformato governo e incarichi, formalizzando la famosa Giunta di Stato per i ribelli. Fabrizio Ruffo, pur esacerbato dal diktat britannico verso i prigionieri, s’insedia a Palazzo Reale con il titolo di Capitano Generale e Luogotenente del Regno. Le ultime disposizioni regie sono del 4 agosto quando il sovrano riparte, con desolazione generale dei regnicoli, per la Sicilia. E’ necessaria una chiosa su questa partenza. La coalizione antifrancese era comandata militarmente dall’Inghilterra, in zona rappresentata dall’amm. Nelson. Quindi le decisioni tattiche della belligeranza spettavano a lui. Il non adeguamento degli alleati poteva solo causare la rottura del patto. Ecco perché quando i filo giacobini parlano di “fuga a Palermo” nel dicembre ’98 commettono un doloso errore perché il motivo era la risoluzione inglese di attestare la resistenza all’avanzata rivoluzionaria sul mar Tirreno con la Royal Navy e sulla terraferma con la roccaforte Sicilia. Analogamente il mancato sbarco a fine giugno di Ferdinando IV a Napoli e il suo allontanamento inopinato all’inizio di agosto. In questo frangente Nelson aveva agito più da politico che da militare perché sempre meglio si mette a fuoco il piano di Londra di prendere due piccioni con una fava in questa guerra. In altre parole si intendeva abbattere la Francia rivoluzionaria che appariva assai preoccupante per i fini egemonici britannici e, nel contempo, fiaccare con diversi espedienti quel regno in mezzo al Mediterraneo, inviso sia per la ottimale posizione strategica, sia per il suo potenziale sviluppo economico e politico. Il via libera alle maldicenza mediatiche sui sanfedisti era stato orchestrato a dovere dalla perfida Albione per frenare una controrivoluzione che atterriva gli inventori della rivoluzione, chiaramente d’oltremanica. La lotta straordinaria che lazzari e briganti avevano scatenato dopo il dispaccio regio del dicembre ’98 per la difesa del regno lasciava assai sconcertati e inquieti gli inglesi perché osservavano il popolo napolitano che esercitava la sua sovranità nei fatti, ben lungi da quello conosciuto e voluto sul Tamigi che andava solo illuso, sfruttato e represso. Pertanto erano stati ingigantite le intemperanze specialmente a Napoli dopo la riconquista del 13 giugno sino a infondere nell’animo dei destinatari delle gonfiate notizie un vero e proprio terrore della plebe e dei suoi eccessi. Questa era stata la motivazione del Borbone a non mettere piede nella capitale e poi prudentemente ad abbandonarla in attesa della promessa normalizzazione. Paura del popolo? Di quel popolo che si era fatto massacrare il suo nome? Di quel popolo che avrebbe completamente ammansito solo con un gesto per l’immenso amore che lo legava alla monarchia borbonica? Un errore madornale recepire le menzogne di Nelson sull’attuale pericolosità della capitale.
Sin dal mese di luglio avanguardie sanfediste erano penetrate nei territori usurpati al Papa dalla repubblica romana agli ordini di Parigi. Il 10 agosto il gen. Rodio lascia Sora e occupa Frascati unendosi alle truppe del duca di Roccaromana e minacciando la città eterna. Lì comandava il gen. Garnier che, dopo aver mandato inascoltate richieste di tregua ai Napoletani, attacca l’avanguardia presso Monterotondo costringendola ad arretrare su Frascati dove si posiziona fermamente, coadiuvato anche dalle masse di Fra Diavolo. I francesi, i loro padani alleati cisalpini e i ‘patriotti’ locali si arroccano invece in Roma avendo saputo di un esercito austriaco che scendeva per liberare la sede pontificia. Infine gli inglesi salpano per bloccare Civitavecchia. Anche la rivoluzione romana ha i giorni contati!
Nel mese di agosto proseguono incessanti processi e condanne dei ribelli più in vista che hanno tradito la Patria, il Re e il Popolo Duosiciliano. Sempre con la doppia pena capitale del taglio della testa per gli aristocratici e dell’impiccagione per gli altri. La scena macabra si svolge nella storica Piazza Mercato avanti a una folla inferocita per le vessazioni repubblicane subite. Da ricordare alcuni rei. Nei primi giorni va al supplizio della scure il sedicente generale repubblicano Oronzo Massa; poi molti proprio il 20 come Gennaro Serra di Cassano (duca fellone), Antonio Lupo (giudice persecutore dei lealisti), Michele Natale (vescovo “democratizzato” e scomunicato) , Antonio D’Avella alias Pagliuchella (uno dei lazzari corrotti dalle promesse francesi) e la famosa Eleonora Pimentel de Fonseca. A costei è negato il trattamento nobiliare, per maggior disdoro, dati i notevolissimi danni inferti con le false notizie di stampa e il suo passato di “fervente monarchica”. Eccezionali i versi della Carmagnola:
Addò è gghiuta ‘onna Eleonora
c’abballava ‘ncoppa ‘o teatro
mò abballa miez’ ‘o mercato
‘nzieme cu mastu Donato.
Costoro sono tra i peggiori traditori e costituiscono quindi la feccia dei giacobini napoletani servitori dei predatori francesi. Ancor oggi pseudo intellettuali li esaltano e li onorano, intestando ad essi toponimi e eventi culturali grazie ai mezzi d’informazioni sempre più saldamente in mano dei loro massonici mandanti.
Trascinato in catene dai rivoluzionari atei, papa Pio VI non sopporta più il carcere e muore a 82 anni a Valence, nella regione storica francese del Delfinato. Coerenti con le loro idee i giacobini scrivono sulla tomba :
Citoyen Giannangelo Braschi – pape de son nom d’artiste
[Cittadino Giannangelo Braschi -in arte (cioè mestiere) papa]
Si spalanca così un abisso nel mondo del modernismo e dei falsi ideali creato apposta per illudere la mente degli ingenui. Ben pochi riusciranno a raccapezzarsi tra belle parole e brutti fatti che rappresentano l’essenza dell’antitradizionale Rivoluzione.
In quel mese di settembre 1799 incessantemente processi e sentenze si susseguono. Tra le sempre troppo poche condanne capitali sono alcune da ricordare. A fine agosto l’avvocato Nicola Fasulo e lo sventurato Michele Marino, detto Michele ‘o pazzo, che era stato un eroe di fronte a Championnet ma si era fatto poi sedurre dagli orpelli rivoluzionari. Il 4 settembre è decollato il sanguinario traditore Ettore Carafa, distruttore di Andria e dintorni, suo ducato; 14 è giustiziato il comandante dell’artiglieria giacobina Oronzo Massa e, a seguire, un altro comandante fellone Gabriele Manthoné e poi il più alto in rango come il principe di Strongoli Ferdinando Pignatelli, assieme al fratello Mario. Si ribadisce che questo rigore colpiva solo la punta dell’iceberg rivoluzionario fomentato dall’estero. Pertanto la rivoluzione sarebbe proseguita perché assolutamente non scalfita dalla reazione e poteva usare un’arma assai potente in più contro il potere legittimo e popolare: la propaganda settaria sulle “atrocità borboniche” che ad arte i nemici di sempre stavano per far girare nel mondo intero…
Nell’ottobre 1799 i Francesi sono persuasi dell’inutilità della resistenza a Roma con l’evanescente repubblica giacobina quando compare un corpo d’armata borbonico comandato dal gen. Brouccard, con fanti, artiglieria e cavalleria . Già a nord c’erano truppe austriache e a Civitavecchia navi britanniche. Il responsabile gallo gen. Garnier contatta separatamente inglesi, austriaci e napolitani per pattuire la sua capitolazione. I primi a entrare nella città eterna sono i soldati di Brouccard da porta San Giovanni , seguiti da Rodio a porta Maggiore e il resto da San Paolo. Vi sono anche truppe alleate come quelle russe. E’ l’alba e la marcia dei borbonici sveglia i romani che subito festeggiano i liberatori provenienti da sud. I repubblicani si radunano in piazza S. Pietro sono francesi, patriotti locali, cisasalpini e giacobini delle province papaline coartati dai signorotti. Tutti sono poi trasferiti sotto scorta a Civitavecchia per salpare verso la Francia. A Roma è nominato reggente il gen. napolitano Naselli sotto le insegne di Ferdinando IV di Borbone in attesa del ritorno del legittimo governo papale.
Nel mese di ottobre altri processi e condanne seguitano nella capitale. Segnaliamo due felloni giustiziati con la forca: Domenico Cirillo e Mario Pagano. Essi ebbero ruoli di primo piano nella repubblica fantoccio col tricolore. Cirillo, medico del distretto di Casoria e Pagano, avvocato del distretto di Potenza. Costoro, ufficialmente massoni, rappresentano quella borghesia avida e insofferente alla politica borbonica che tutelava i ceti minori. Costoro sono tra i più rinomati e osannati sedicenti “martiri” della repubblica partenopea con vie, istituzioni, manifestazioni che li commemorano da due secoli con i soldi pubblici mostrando il lato meno indicativo della realtà. In effetti questi due, assieme agli altri 100 che subirono la giusta pena capitale, sono esaltati dal potere vittorioso con un sofisma assurdo. Si dice infatti da 220 anni che l’intera classe dirigente fu decapitata dalla repressione borbonica gettando il regno in una sorta di barbarie che ebbe il suo culmine con l’implosione sotto i colpi del risorgimento. Ebbene, su oltre 7 milioni di abitanti di un regno depositario delle più elevate menti eredi diretti della Magna Grecia, sublimate con i Borbone, solo un centinaio di loro erano degni di farlo sviluppare! Cioè quasi 1 ogni 100mila! Ciò vorrebbe significare che eravamo al livello del terzo mondo del tempo con geni emergenti per prodigio e non per organizzazione statale. Questa è una delle fole più indigeribili e insostenibili inventate dai nemici di Napoli. Nulla contro il valore intellettuale di Cirillo e Pagano ma non erano due geni internazionali nati quasi per caso dalle nostre parti da paragonare a Leonardo o Einstein. La classe dirigente rimase intatta e crebbe armonicamente fino a metà Ottocento con le Due Sicilie. Solo che portava una serpe in seno costituita dalle migliaia di traditori del 1799 e anni successivi rimasti impuniti. Se la Giunta di Stato avesse funzionato sino a Francesco II come dopo la riconquista sarebbe stato impossibile privarci dell’indipendenza.
Il 5 novembre 1799 il card. Ruffo è chiamato al conclave che si terrà a Venezia per eleggere il nuovo pontefice dopo la morte in carcere francese di Pio VI. La città lagunare è ritenuta infatti più sicura per la protezione austriaca essendo Roma stata appena liberata dai borbonici di Napoli. L’assise è preparata nella chiesa di S. Giorgio nell’omonima isola. Ruffo deve quindi cedere il titolo di Luogotenente e Capitano Generale al sostituto reale Francesco Statella, principe del Cassaro da Palermo che si insedia nella capitale il 24. Proseguono i processi con la minima percentuale di condanne capitali e la normalizzazione graduale della vita nel regno di Napoli grazie anche alla disciplina e all’affidabilità dei reparti russi con i rinforzi sbarcati sotto il comando del grande amm. Ushakov in persona.
Dicembre 1799. Le ultime condanne capitali sono compiute entro la fine dell’anno con personaggi minori. La persona rea più di spicco è Luisa Sanfelice, nobile decaduta ma pubblica dissoluta, che per quasi due anni evita l’esecuzione ordinata dal tribunale in base ad un puerile pretesto. Infatti afferma di essere in cinta sapendo che così avrebbe bloccato ogni azione per gli scrupoli morali delle istituzioni borboniche. Dopo infruttuose visite ginecologiche e trascorsi abbondantemente i nove mesi canonici la disgraziata è decapitata l’11 settembre dell’anno dopo.
Si chiude così la parentesi breve ma terribile della rivoluzione e della controrivoluzione napoletana del 1799. Oltre alle decine e decine di migliaia di vittime fatte da repubblicani esteri e collaborazionisti indigeni, il periodo non sembra lasciare tracce significative nella società del regno di Napoli. Il popolino rientra man mano nei ranghi della giusta moderazione e della speranza di presta restaurazione, il governo borbonico stempera ulteriori frizioni e si avvale appieno della preziosa collaborazione dell’esercito russo del mitico amm. Ushakov. I Russi costituiscono la certezza del ritorno all’ordine e alla normalità come puntualmente avviene. Puntualmente avviene anche quello che succede quando la perfida Inghilterra aiuta un altro stato. Innanzitutto si procura legalmente o meno un equo risarcimento (come Malta e le solfare siciliane) ma poi getta i semi che germoglieranno in seguito per la sua politica espansionistica e colonialistica. Come già adombrato, erano già partite due fondamentali campagne mediatiche di disinformazione contro i Borbone: le regia ferocia nel condannare i famosi “martiri del 99” e il terrore che incuteva la plebe partenopea ritenuta capace di sovvertire persino il trono sebezio. Entrambe rappresentano i due strumenti più micidiali nel denigrare l’intera dinastia nel presente e nel futuro anche assai lontano. Gli intellettuali odierni ancora sono totalmente persuasi della prima. Per la seconda gli effetti saranno ancor più catastrofici perché inibiranno per sempre Ferdinando IV e i suoi discendenti Francesco I, Ferdinando II e Francesco II dall’affidarsi al popolo nei momenti topici della storia del regno e perciò causeranno la sua fine. Ecco perché il re torna a Napoli addirittura tre anni dopo la vittoria, nel giugno 1802, essendo esageratamente spaventato dall’ordine pubblico ritenuto ancora instabile e quindi pericoloso. Eppure era stato quel popolo a costituire la parte centrale dell’armata vittoriosa di Ruffo, era stato quel popolo a mostrare la saggezza necessaria per rigettare le utopie rivoluzionarie, era stato quel popolo a suscitare l’ammirazione di amici e perfino nemici per il suo coraggio e la sua lealtà.
Dal 1799 la rivoluzione che intende divorare il mondo sa che in quel modesto territorio che va dal Tronto al capo Lilibeo esiste una popolazione indomabile e completamente refrattaria alle sue lusinghe adescatrici. Essa era stata aspramente contrastata prima in Vandea, poi in altre parti del vecchio continente ma solo all’ombra del Vesuvio era stata battuta dalla sua vittima prediletta, il popolo. Dopo lo smacco di quell’anno la rivoluzione tentò ancora vanamente nel 1806, nel 1821, nel 1828, nel 1848 di normalizzare i duosiciliani. Con una maestria inimmaginabile vi riuscì nel 1860. Ma, dopo 220 anni, i duosiciliani stanno ancora qua; a scrivere e leggere queste note e a rappresentare ancora un problema per quelli che vorrebbero un inumano ordine planetario. Questo è l’altissimo e arduissimo compito che ci spetta: non deludere i nostri antenati e resistere fino alla profetizzata sconfitta definitiva della setta satanica che controllo il mondo.
Appuntamento giovedì 24 gennaio 2019 al Largo Mercatello di Napoli capitale alle 16.30 per un incontro con la comunità russa, al numero civico 52 I p., per la relazione del prof. V. Gulì sull’alleanza di Ferdinando IV di Borbone con la Santa Madre Russia nella II coalizione del 1799. Ingresso libero.
Video della conferenza:
Ricordiamo oggi le tre giornata di Napoli in cui i Lazzari (cioè il Popolo Sovrano legittimato da Federico II a Carlo di Borbone) difesero la capitale spargendo a migliaia il loro sangue per il Trono e per l’Altare.
i fatti storici
LE TRE GIORNATE DI NAPOLI
21-22-23 GENNAIO 1799
Nel dicembre del 1798 l’esercito rivoluzionario francese, dopo aver deposto e imprigionato il papa, partì alla conquista di uno dei regni più ambiti, quello di Napoli. L’Inghilterra voleva impegnare i Francesi in questa invasione per potersi riorganizzare nella guerra sulla terra ferma dopo la vittoria in mare ad Aboukir. Il capo del governo Acton convinse re Ferdinando IV a schierarsi dalla parte degli alleati antifrancesi e l’intero esercito napoletano salì al nord per combattere oltre i confini al comando del generale austriaco Mack. Naturalmente le forze occulte che manovravano il tutto tenevano ben presenti alcuni obiettivi, il principale dei quali riguardava i due regni legittimamente retti da Ferdinando di Borbone (IV a Napoli e III a Palermo). Essi dovevano essere sconquassati e indeboliti per mutarli in vassalli di Parigi o Londra, secondo chi avrebbe alla fine prevalso. Per tale motivo al duce straniero Karl Mack von Leiberich questi poteri occulti riuscirono a fare assegnare degli aiutanti di campo che fungevano anche da interpreti tra il tedesco e il napolitano. Il comprovato valore strategico del feldmaresciallo fu quindi travisato con equivoche disposizioni alle truppe che vennero agevolmente divise e sbaragliate dall’armata di Championnet. Acton subito colse l’occasione per invitare il re ad abbandonare la capitale peninsulare e rifugiarsi nell’altra insulare in Sicilia. Nonostante forti e vibranti manifestazioni popolari e militari che incitavano alla resistenza nella città sebezia, Ferdinando partì con la corte e l’esecutivo il 22 dicembre lasciando quale vicario generale il principe Pignatelli Strongoli. Gli agenti britannici di Acton approfittarono dell’opportunità per affondare la flotta napoletana che con tanti sforzi si era riusciti a varare con il pretesto di non farla cadere in mano nemica (ma non poteva salpare con il re?).
Se l’esercito napoletano si era sfaldato nello stato pontificio quando rientrò nel suolo patrio riprese ardore anche per l’appoggio immediato e spontaneo della popolazione. Dal Tirreno all’Adriatico civili e militari nel nome di Re Ferdinando ripresero le armi infliggendo seri danni agli invasori. Il primo fu Fra Diavolo ma seguirono altri famosi come il duca di Roccaromana, Mammone, Giambattista Rodio (ex giacobino pentito), Giuseppe Pronio (Abate). In quel periodo nacque la celeberrima lotta popolare (detta poi guerriglia per il suo successo in Spagna) perché fatta, in difesa della patria invasa, da eserciti “non regolari” formati da civili, donne, religiosi, ex militari sbandati, legittimisti stranieri, tutti perfidamente definiti, per confusa semantica, briganti.
Championnet decise abilmente di dover prima prendere Napoli e poi soggiogare il regno. Così diresse l’armata sulla capitale eludendo i flebili e assurdi tentativi più che altro diplomatici di Mack e Strongoli di rallentare l’attacco.
Con i soldati regi disciolti, con il re costretto a trasferirsi, con le residue autorità accondiscendenti, con i nobili “francesizzati”, dopo ripetuti e vani tentativi di essere ascoltati per la difesa della capitale il popolo si organizzò.
Già direttamente al Re la Lazzaria aveva offerto il suo appoggio per salvare il trono, quindi viepiù in sua assenza fu rispolverata la prammatica carolina che cedeva i poteri al popolo in assenza del sovrano. Come consuetudine i Sedili si riunirono nel convento di San Lorenzo deliberando la difesa ad oltranza della capitale dalle orde francesi in arrivo.
I popolani s’impadronirono delle porte, delle fortificazioni e delle armi perseguitarono i filo giacobini locali, traditori della Patria Napolitana. Anche le strade d’accesso lato nord furono presidiate da Capodichino a Poggioreale.
Domenica 20 gennaio al Duomo una folla immensa giurò a San Gennaro di offrire la propria vita per la difesa della capitale, adottando una bandiera nera inneggiante al santo patrono.
La mattina del 21 quasi trentamila francesi partirono da Pomigliano, rasa al suolo per incutere terrore all’hinterland partenopeo e prevenire soccorsi alla capitale. Diviso in quattro colonne l’esercito rivoluzionario transalpino investì Capodimonte, il Carmine, Porta Capuana, tenendo in riserva il resto dei soldati.
Il furore dei francesi fu terribile ma i Lazzari, guidati da capi improvvisati, spesso auto-elettisi sul campo (come Michele Marino detto ‘o pazzo, De Simone, Pagliuchella, Paggio) e coordinati dal principe di Canosa Antonio Capece Minutolo, furono sostenuti ormai da tutti gli abitanti, compresi i soldati regi sbandati, invitati al grido di “SERRA, SERRA”, e la lotta fu asperrima frenando l’impeto degli invasori. Combattimenti spaventosi si accesero ai varchi della città come il castello del Carmine, Ponte della Maddalena, Porta Capuana.
L’accesso settentrionale a Napoli è senza dubbio Porta Capuana dove il nerbo dell’armata straniera si diresse dopo aver superato la tenace resistenza a Poggioreale. La carica alla baionetta non atterrì i lazzari che ostacolarono l’avanzata in ogni modo. Addirittura i mucchi di cadaveri napolitani avanti alla porta monumentale servirono da trincea per rintuzzare i ripetuti assalti. I battaglioni del gen. Guillaume Philibert Duhesme furono bloccati avanti all’arco per ore e rischiarono grosso quando altri popolani sopraggiunsero di rinforzo. Lì prevalse l’arte guerresca del nemico che attirò in una trappola i napolitani riuscendo alla fine a entrare in città con immediato incendio e spargimento di sangue per tutti i disgraziati che si trovarono in zona, anche non combattenti e nelle proprie case, compresa la chiesa e il convento presso le mura. Era ormai notte in quel tristissimo lunedì ma i Lazzari respinti si barricarono soltanto attorno al varco conquistato dai francesi.
Altro punto delicato della difesa fu il Ponte della Maddalena che sopravanzava il fiume Sebeto, protezione naturale della città. Fu il miglior generale francese, il giovanissimo François Étienne Christophe Kellermann, a dover pugnare assai duramente con i Lazzari, spronati dalla statua di San Gennaro che sembrava sfidare il male della rivoluzione con la sua mano minacciosa. Con l’arrivo delle riserve i Francesi passarono nello stesso giorno il ponte ma furono subito impegnati in altri combattimenti al Mercato.
Martedì 22 si aprì quindi con la capitale invasa in più zone ma con un ulteriore vantaggio per i francesi. Infatti, i giacobini traditori della patria e del popolo napolitano erano riusciti ad impadronirsi di Castel Sant’Elmo e dei suoi cannoni e, seppure in pochi e probabilmente con l’aiuto anche di qualche loro donna che poi si vanterà dei loro misfatti, presero di mira la Lazzaria. Con i Francesi di fronte e i giacobini alle spalle i Napolitani non deflessero e disputarono vicolo per vicolo, casa per casa, palmo per palmo il terreno ai rivoluzionari. Fu una giornata apocalittica per gli abitanti di Napoli. Tra via Foria, Largo delle Pigne, via Chiaja, il Mercato si accesero furibonde mischie con i poveri lazzari che tenevano testa al più forte esercito del tempo con i suoi migl
iori generali a comandarlo.
I terribili echi della battaglia di Napoli erano però giunti agli abitanti dei dintorni che si stavano organizzando per marciare in aiuto della capitale. Fu quindi per l’invasore una fortuna che il 23 la città fosse totalmente espugnata con la fine delle ultime resistenze attorno ai castelli.
Nacque allora lo stato fantoccio della repubblica partenopea con i traditori che avevano aiutato lo straniero, la resistenza si spostò immediatamente fuori della capitale perché i regnicoli non si arresero mai e i Lazzari si ritirarono nell’ombra per prepararsi alla riconquista del cardinale Ruffo.
Vincenzo Gulì