Oggi sono esattamente 165 anni dall’inaugurazione solenne del porto alla presenza di Ferdinando II. La festa commemorativa si terrà il 19, con l’intervento di NBA e P2S, con il prof. Gulì che sarà il narratore del grande spettacolo serale. appuntamento alle ore 18 al porto d’Ischia.
Programma ufficiale del comune:
Video del P2S sull’evento con intervento di Vincenzo Gulì
Video completo della festa al porto d’Ischia
IL PORTO BORBONICO DI ISCHIA
L’isola d’Ischia, che corona il golfo di Partenope, è teatro di una delle innumerevoli opere pubbliche dei Borbone Due Sicilie. L’innegabile e grato riconoscimento alla dinastia borbonica è però variamente interpretato a seconda della formazione culturale di chi affronta tale tematica strettamente connessa al territorio in cui viviamo. C’è chi interpreta tali regie imprese come spese per il sollazzo e i capricci del sovrano. Ne è esempio clamoroso la famosa prima ferrovia della penisola italica Napoli-Portici definita dai detrattori “giocattolo del re” per raggiungere estrosamente la sua residenza nella reggia vesuviana (quando essa aveva un’importanza notevole per il trasporto di merci e passeggeri tra la zona servita in continua espansione e la capitale). In questo ambito distorto rientrano le iterate affermazioni che i due Ferdinando che brigarono per costruire il porto ischitano lo fecero per agevolare le loro visite di svago nell’isola verde. Nulla è piò fuorviante perché dalla realizzazioni più maestose e costose, come l’acquedotto carolino o la reggia di Caserta, i Borbone da Carlo sino a Francesco II, fecero investimenti cospicui a mero scopo economico come ormai la revisione storica in atto da oltre un trentennio sta chiaramente dimostrando. Secondo tale logica costruttiva e produttiva occorre porsi per comprendere appieno l’evento storico in oggetto.
I re di Napoli solevano girare frequentemente nel regno, privilegiando naturalmente i siti più prossimi alla capitale per ragioni logistiche, non tanto per diporto quanto per compiere dei doveri imprescindibili per un vero sovrano. Essi si possono riassumere nella funzione più qualificante del monarca che è quella di proteggere i più deboli della scala sociale da quelli più forti che sono in grado di vessarli. Da qui nasce l’amore sviscerato del popolo duosiciliano che sarà in ogni circostanza al fianco del suo re. La storia contemporanea vede sparire o sostituire ad uno ad uno i re di questo spessore nel nome di belle e ipocrite parole che vogliono di fatto trasferire la facoltà decisionale dalle mani equilibrate del capo dello stato a quelle molto più malleabili di organismi eretti dalle élite sociali potenti per lignaggio o per fortune commerciali.
Il fondatore della casata borbonica Carlo apprezza immediatamente i luoghi ameni di Procida e Ischia e offre a parecchie famiglie di quest’ultima la possibilità di spostarsi nell’arcipelago ponziano per migliorare le proprie condizioni economiche.
Le capatine di Ferdinando IV ad Ischia vanno così intese coniugando l’aspetto ludico, senz’altro esistente, con quello ispettivo per il benessere della popolazione. La visita reale era ovunque un’occasione per recare personalmente al sovrano le piccole o grandi istanze dei residenti, focalizzando l’attenzione sul comportamento dei signorotti locali che giustamente erano in quei momenti in ambasce.
Nell’animo del giovane Ferdinando IV lo specchio d’acqua rotondo e pescoso prospiciente il casino, costruito dal medico di corte Buonocore che lo ospitava, era un sito meraviglioso che però lo obbligava a un trasbordo sgradito dopo l’attracco a Ponte o, peggio ancora, a Casamicciola e addirittura alla lontana S. Angelo. Alla fine il re compra l’edificio per la sua corte e fissa una tassa municipale per sfruttare la pesca nel “lago dei bagni” e l’attigua tonnara. Il sovrano è il primo a pagare quando si reca nell’isola. Queste entrate rappresentano una voce assai gradita e cospicua del bilancio comunale.
I venti rivoluzionari e le invasioni francesi fanno accantonare le belle giornate ischitane con i relativi progetti di miglioramento a Ferdinando, divenuto I delle Due Sicilie.
Negli anni cinquanta si giunge al nipote Ferdinando II che, seguendo naturalmente le orme della dinastia, si trova, al rientro da una visita alle isola Ponziane, a tentare invano di approdare a Ischia. Il mare mosso rendeva infatti rischioso sbarcare in un’isola senza un vero e affidabile porto. Un sovrano giovane e decisionista come lui fa convocare ad horas gli ingegneri del Genio con un semplice e perentorio ordine del giorno, di cui tante volte si era già parlato: costruzione del porto a Ischia. La scelta cade spontaneamente sull’ex cratere vulcanico in cui si pesca, ideale per fungere da porto una volta reciso l’istmo che lo separa dal mare aperto, tra le collinette di S. Pietro e S. Alessandro.
Le motivazioni di un impegno tanto gravoso sia dal punto di vista finanziario sia da quello tecnico esulavano largamente e logicamente dai capricci reali di trastullarsi sporadicamente sull’isola e si fondavano sulla constatazione che gli accresciuti abitanti locali abbisognavano di contatti sicuri e veloci con la terraferma per sviluppare completamente le loro attività, tra cui quella assai rinomata delle cure termali, rafforzando al meglio il Gran Tour che già teneva l’isola nei suoi itinerari. Mentre Ferdinando esamina il progetto si rende conto di un grosso ostacolo che da sempre lo aveva ostacolato: gli interessi dell’amministrazione ischitana a incassare i diritti sul “lago”. Infatti proprio dal decurionato, in mano ai notabili del posto, verrà l’unica e insanabile opposizione alla realizzazione del porto. Ecco applicata senza esitazione la funzione del vero re che sconvolge gli interessi dei pochi per favorire quello dei molti.
Ferdinando pretende tre punti fondamentali per realizzare l’opera: l’ammontare preciso e invalicabile della spesa da affrontare; i tempi inderogabili di produzione; la segretezza in fase di progettazione per non esacerbare gli animi degli amministratori locali. Al cav. Camillo Quaranta, già apprezzato autore del bacino di raddobbo nel porto di Napoli, è affidata la direzione dell’opera che parte nel luglio del 1853 dopo aver soddisfatto in maniera ottimale le tre condizioni reali tra cui quella col decurionato a cui è attribuito un congruo assegno annuo in risarcimento dei diritti di pesca che vanno a perdersi.
I lavori, come preventivato, sono assai duri e impegnativi ma sono eseguiti nel migliore dei modi grazie alla specializzazione di tutti gli addetti per l’altissimo livello di capacità ed efficienza presente nel regno, come dimostrano i primati internazionali che lo contraddistinguono. Si pareggia lo scoglio centrale per consentire la navigazione e si scandaglia il fondo per liberarlo da quanto possa intralciarla; si demolisce la parte dell’antico cratere verso il mare che finalmente è congruamente collegato con il nascente porto; si lastricano le vie adiacenti e si iniziano le costruzioni necessarie come la dogana, la guardia e una chiesa per i naviganti; si erige una scogliera per l’adeguata protezione dai marosi; si impiegano tutte le risorse umane possibili partendo ovviamente dai residenti, compresi i soliti detenuti da adibire ai lavori più pesanti con varie concessioni finali di grazia per l’abnegazione dimostrata.
Appena un anno dopo la prima grande nave, il Delfino, entra nel nuovo porto con salve di cannoni per l’esultanza.
Per l’inaugurazione ufficiale ci rifacciamo agli Annali del 1855 che riportano l’evento.
Domenica 17 settembre 1854 alle ore 17.00 da tutti centri insulari si radunano gli abitanti con imbarcazioni e costumi addobbati a festa. Le navi dell’armata di mare sparano a salve quando compare re Ferdinando II con tutta la sua famiglia. I reali si sistemano in uno speciale padiglione di stile cinese “La Pagoda” e sono accolti da ripetute ovazioni degli astanti. Accanto al sovrano è il vescovo Felice Romano, nipote di quello che poi diventerà San Vincenzo Romano di Torre del Greco. La terraferma è stracolma degli abitanti e di tanti turisti duosiciliani e stranieri accorsi per la grande occasione. Sono oltre duecento i natanti di varia stazza che occupano il nuovo porto compiendo varie evoluzioni tra gli applausi della folla Il giubilo si protrae sino alla sera di quel giorno radioso anche nel clima e la felicità prorompe dallo sguardo di tutti per un sovrano che ha trasformato Ischia in maniera idonea a farla crescere economicamente nel tempo a cominciare dall’ottimo e stupendo porto che apre la via al vero boom che si avrà negli stabilimenti termali, nel turismo e nelle altre produzioni locali essenzialmente la vinicoltura, il tutto agevolato dalle nuove strade testé aperte al pubblico che attraversano l’isola verde da una capo all’altro e che ancora oggi conservano l’aggettivo borbonico.
Ischia supera così il divario che la separava dalle più frequentate località di Capri e Sorrento. Il suo sviluppo sarà esponenziale finché sarà in vita il regno che dal XII secolo univa napolitani e siciliani. Gli abitanti di Ischia e Procida resteranno pertanto sempre fedeli al loro legittimo sovrano. Nell’invasione del 1799 saranno tra i primi a liberarsi con l’appoggio degli alleati inglesi e i primi ad assistere alla punizione dei felloni collaborazionisti della repubblica fantoccio creata dai Francesi per depredare i territori napolitani. Tutte le parole, sovente esaltanti e condivisibili, usate dai fautori di quella repubblichetta di fine Settecento furono poi iterate e gonfiate dai carbonari, dai liberali fino all’unificazione italiana. Ma i fatti che essi compirono sono quasi sempre di natura opposta alle dichiarate intenzioni. Basti riflettere su quanto ci hanno inculcato di essere stati liberati nel 1861 quando da allora è sorta una questione meridionale irrisolvibile come la tela di Penelope. Non indignino quindi queste ultime considerazioni ma inducano a meditare su quest’Italia a due dolose velocità da 158 anni i cui effetti sono lampanti dalle nostre parti, a cominciare dal recente sisma di Lacco trascurato dalle istituzioni semplicemente perché accaduto in un’area coloniale.
Napoli, 17 settembre 2019, nel CLV anniversario del porto
Vincenzo Gulì
La bella descrizione dagli Annali del Regno voll.53-55
La rete viaria borbonica dell’isola d’Ischia
Nel 1853 Ischia era un’isola bellissima ma assolutamente carente di vie di comunicazione con grave disagio dei 24 mila abitanti le cui attività erano fortemente ostacolate anche per la enorme difficoltà di avere rapporti con la terra ferma. Eppure l’agricoltura e le sorgenti termali concedevano da tempo risorse potenzialmente rilevanti per il suo soddisfacente sviluppo economico-sociale.
Finalmente la mano potente e benefica di re Ferdinando II prende a cuore i problemi ischitani e cominciano una serie di opere pubbliche che trasformeranno completamente il volto dell’isola fino a farla brillare come una delle più belle perle del golfo partenopeo.
Con 14.000 ducati (circa 300mila euro) si aprono i lavori con l’edificio che regola la più famosa sorgente termale del Gorgitello, presso Casamicciola, con addetti comunali. Allora soltanto dei tortuosi sentieri menavano dalla zona del castello a quella dei Bagni con pesanti disagi al trasporto di quanti ivi si curavano. Ecco allora tracciata e realizzata una strada normale nominata meritatamente Ferdinandea che dal capoluogo attraversa il territorio per la costa di Casamicciola congiungendosi con altre vie, come quella battezzata Maria Teresa che va verso Lacco. I vari casali semi sperduti sono finalmente ben collegati e man mano altre costruzioni s’insediano lungo i facilitati percorsi. Si inizia anche il collegamento per il circondario di Forio, con sistemazione del suo porticciolo, con vari ponti per superare le anfrattuosità collinari mediante la strada Regia. Varie altre carreggiate minori sono ristrutturate confluendo poi in quelle già citate. Il nuovo stupefacente porto del 1854 aumenta esponenzialmente l’importanza e la efficacia della rete viaria, come pure il cavo telegrafico tra isola e continente. Sono tre anni di febbrili e spettacolari lavori che modernizzano l’isola aprendola alle sue legittime aspettative agricole (addirittura degli esperti da Lipari perfezionano la viticoltura), termo terapeutiche e sempre più anche turistiche. Da sottolineare che la maggior parte della spesa è a debito della Cassa Reale senza gravare sul bilancio oculato dello stato.
Chi si avventurasse ad analizzare i bilanci borbonici degli ultimi 25 anni non potrebbe non accorgersi del progressivo aumento della produttività (oggi diremmo del P.I.L.) e dell’aumento meno che proporzionale della pressione fiscale. In altre parole più la popolazione produce, più sta bene e meno tasse può pagare perché la spesa pubblica è attenta e sempre rivolta a favorire l’economia, segnatamente con i miglioramenti infrastrutturali come i trasporti.
Solo chi ignora questi aspetti della politica borbonica può azzardarsi a criticarne soprattutto la fiscalità. E pure chi ignora che il premier inglese Robert Peel non poté esimersi dal fare i complimenti a re Ferdinando per la riduzione di due balzelli d’importazione su zucchero e prodotti coloniali del 1843. Al suo parlamento nel gennaio 1946, obtorto collo, affermò: “Il governo napolitano è stato uno de’ primi che siasi affrettato di seguire questa linea di politica commerciale. Io debbo, per rendere giustizia al Re di Napoli, dire che ho veduto un documento scritto di sua mano, e questo documento racchiude principii così veri come quelli sostenuti da’ professori più illuminati di economia politica.”
In conclusione se lo stato preleva per investire nel benessere diretto o indiretto del popolo non avrà mai bisogno di inasprire i tributi perché essi naturalmente si affievoliranno per il migliore tenore di vita di tutta la nazione. Nel XIX secolo i Borbone lo avevano capito, che dire dei nostri governanti successivi?
Vincenzo Gulì