Dalla Germania nazista viene un’altra lezione fondamentale per quanto concerne la determinazione massima nel ricostruire la base dell’autonomia dei tre settori economici; essa riguarda la finanza. La persecuzione degli Ebrei è stata sviluppata in tutti i suoi aspetti razzistici, crudeli, demagogici, bellici, barbarici ma mai si è cercato di approfondire il fatto che negli anni Trenta la finanza era quasi tutta in mano proprio degli Ebrei. Costoro, essendo strettamente collegati nelle varie parti del mondo in cui erano sparsi, ricevevano naturalmente ordini precisi dai paesi anglo-sassoni che non volevano la ripresa economica tedesca. Qui si vuole affermare qualcosa di sorprendente che non deve però porre equivoci. Per l’integrale ripresa economica tedesca era necessario strappare dalle mani dei banchieri ebrei la finanza. Ciò fu fatto nel peggiore dei modi, attizzando odio razziale e conducendo un infame sterminio di centinaia di migliaia di persone innocenti (non i milioni strombazzati dal dopoguerra a oggi…). Resta il risultato che consentì alla Germania hitleriana di divenire una vera potenza anche economica nella prima metà del Novecento.
Questo per porre l’accento sulla fragilità di un sistema economico che si faccia sfuggire il controllo nazionale della finanza, motore della produzione, dell’innovazione, della conversione, della competizione internazionale.
Nel federalismo che viene dal nord, la finanza è pressoché totalmente in mano a stranieri o banche settentrionali. Qui non si progetta nessuna <<notte dei cristalli>> ma, senza la potenza finanziaria, nessuno sviluppo sarà permesso all’apparato produttivo al di sotto del Garigliano.
Dall’impero napoleonico viene invece la lezione sulla distribuzione. Quando le superpotenze dell’Ottocento furono tenute a bada dalle baionette francesi, da Parigi partì finalmente la direttiva di risollevare l’economia con la produzione avvilita da decenni di guerre costosissime. Nel 1806, però, scattò il blocco continentale che aveva lo scopo di ostacolare i commerci con ostruzione dei porti e continui sequestri, da ambo le parti, delle navi mercantili. Lo import-export francese fu di conseguenza gravemente limitato, spezzando l’equilibrio tra i settori e facendo escogitare soluzioni estreme, come per la scoperta dello zucchero di barbabietola nel 1811 per sopperire alla sparizione di quello sino allora usato di canna.
Che cosa potrebbe succedere alle merci meridionali dopo il federalismo è ben intuibile in caso di sviluppo ai danni di qualche impresa del nord.
L’economia moderna è sempre una competizione sui grandi mercati che riduce le imprese meno capaci e accresce quelle migliori. Solo che se le aree di produzione non godono di quel famoso equilibrio, si realizza una sorta di concorrenza sleale che sostituisce la meritocrazia con un protezionismo. Esso è strisciante perché difficilmente avvertibile o dichiarabile ma ineluttabilmente efficace visti gli effetti sulla redditività a breve termine e la sopravvivenza stessa delle aziende soccombenti nel lungo termine.
Con la finanza e la grande distribuzione saldamente in mano al Settentrione l’invito a far da sé dei federalisti è quindi soltanto una trappola micidiale. Con quelle due basilari valvole di sicurezza il Nord può ancora dirigere, anche se un po’ più nell’ombra, tutta l’economia meridionale; consentendo quello che vuole e quando lo vuole. Coerentemente con quanto è accaduto da 147 anni a questa parte.
Il federalismo è soltanto l’ultimo sistema per rendere possibile la continuazione della politica economica antimeridionale dei potentati economici nordisti, intimamente connessi ai politici non solo del nord.
Vincenzo Gulì